La fibrillazione atriale è un disturbo del ritmo cardiaco. I sintomi della fibrillazione atriale sono il battito del cuore risulta molto rapido ed irregolare. La malattia rende impossibile un’efficace contrazione delle cavità atriali che si ripercuote sulla funzionalità dei ventricoli e sul flusso sanguigno.
La fibrillazione atriale è un disturbo che coinvolge le camere superiori del muscolo cardiaco, gli atri, e determina un battito accelerato: si parla infatti di cuore in fibrillazione. Si manifesta con l’aritmia cardiaca, ossia un problema di frequenza del cuore. In condizioni normali, a riposo, il ritmo cardiaco, definito “sinusale” è solitamente di 60-80 pulsazioni al minuto. In caso di fibrillazione atriale, la frequenza può variare tra 300 e 600 battiti al minuto. La fibrillazione atriale è, però, una malattia progressiva e potenzialmente pericolosa, in quanto comporta una accelerazione della funzionalità del cuore, riducendo l’efficienza della pompa cardiaca.
La fibrillazione può di conseguenza impedire al cuore di inviare la quantità di sangue e di ossigeno sufficiente a soddisfare i bisogni dell’organismo. Per questo va inquadrata in breve tempo e trattata in maniera adeguata. Solo nel nostro Paese, la malattia colpisce tra i 700mila e gli 800mila italiani e determina non solo gravi problemi di salute, ma anche spese sociali rilevanti per l’intera collettività. Si calcola che il costo annuo per ogni singolo paziente è di oltre 3.000 euro. Ma novità importanti si registrano per quanto riguarda il trattamento della malattia, anche nei casi più difficili.
All’ultimo congresso dell’American College of Cardiology (ACC) è stato presentato lo studio internazionale AUGUSTUS, contemporaneamente pubblicato anche sulla rivista New England Journal of Medicine. Lo studio condotto su 4.614 persone, ha valutato i regimi antitrombotici in pazienti con fibrillazione atriale non valvolare e recente diagnosi di sindrome coronarica acuta (SCA) e/o sottoposti a intervento di angioplastica coronarica (PCI). Dalla ricerca è emerso che la percentuale di pazienti con sanguinamento maggiore o non maggiore clinicamente rilevante a sei mesi era significativamente inferiore in quelli trattati con Apixaban, rispetto a quelli trattati con antagonista della vitamina K”. I risultati della ricerca sono presentati, per la prima volta nel nostro Paese, durante un incontro di approfondimento tra specialisti e giornalisti. L’evento è stato organizzato per illustrare le ultime novità emerse dalla ricerca medico-scientifica.