Milano, 15 mag. – "Non ci sono prove del fatto che Ace-inibitori e sartani, farmaci comunemente utilizzati per l'ipertensione arteriosa, lo scompenso cardiaco e il post-infarto, favoriscano o aggravino l'infezione da Covid-19 come invece era stato affermato nella prima fase di diffusione dell'epidemia". E' la conclusione di uno studio italiano pubblicato sul 'New England Journal of Medicine', condotto dall'università di Milano-Bicocca in collaborazione con Istituto nazionale tumori di Milano e Aria. L'analisi mostra che "l'uso di antipertensivi è più frequente tra i pazienti con Covid-19 a causa di una maggiore prevalenza di malattie cardiovascolari, ma che questi farmaci non ne favoriscono l'insorgenza e non peggiorano la prognosi".
Il lavoro, uno studio caso-controllo – riferiscono da Bicocca e Int – è stato realizzato mettendo a confronto un totale di 6.272 casi di pazienti con grave infezione respiratoria da virus Sars-CoV-2, accertati nel periodo tra il 21 febbraio e l'11 marzo 2020, con un gruppo controllo di 30.759 sani, tutti iscritti nel Registro sanitario della Regione Lombardia. Lo studio smentisce precedenti "allarmanti notizie" e rappresenta per gli autori "un passo avanti significativo nella conoscenza dell'esposizione al rischio di Covid-19 da parte di pazienti in trattamento con antipertensivi, per i quali questi farmaci rappresentano in molti casi delle terapie salvavita da assumere con continuità". Senza dunque interromperle con un pericoloso 'fai da te'.
"Gli antagonisti del recettore dell'angiotensina, i cosiddetti sartani e gli Ace-inibitori, sono tra i farmaci più utilizzati al mondo come trattamenti di prima scelta per il controllo di ipertensione, scompenso cardiaco, malattie renali croniche e altre patologie cardiovascolari – ricorda Giuseppe Mancia, professore emerito in Bicocca – Questi farmaci sono capaci di aumentare l'espressione dell'enzima Ace2, considerato una porta d'ingresso per i virus della famiglia coronavirus. Da qui è nata l'ipotesi che i pazienti curati con queste terapie potessero essere maggiormente a rischio di infezione da Covid-19. Lo studio ha invece mostrato che non c'è nessun elemento di evidenza specifico a indicare che chi è in cura con questi farmaci abbia un rischio diverso di contrarre il virus rispetto a chi non è in trattamento". Tra i risultati "è emerso che, rispetto al gruppo dei controlli, i pazienti affetti da Covid-19 fanno un uso del 10-13% maggiore di Ace-inibitori e sartani, ma anche di altri antipertensivi, come betabloccanti e diuretici, e di altri farmaci come gli antidiabetici. Ciò – afferma Mancia – ha messo in luce che i pazienti che hanno contratto il virus sono quelli che, preferenzialmente, hanno uno stato di salute in qualche modo già compromesso, di cui il maggiore consumo di farmaci è un riflesso".
"La possibilità di utilizzare i dati provenienti dai flussi e dai database della Regione Lombardia e il Registro Covid regionale – sottolinea Giovanni Apolone, direttore scientifico dell'Int – ci ha permesso di risalire alla storia clinica e diagnostico-terapeutica dei pazienti fino a 5 anni precedenti lo studio, inclusi tutti gli episodi di ospedalizzazione per diverse malattie, comprese le patologie tumorali, e di poter escludere, con una certa ragionevolezza nonostante il disegno osservazionale dello studio, che la somministrazione di questi farmaci aumenti il rischio di incorrere nell'infezione e di avere una prognosi sfavorevole". Fra l'altro, "nello stesso numero del 'Nejm' sono stati pubblicati altri due articoli sul tema, basati su dati simili provenienti da altri Paesi, che hanno mostrato gli stessi risultati".
Ma come si è svolta la ricerca? "A ogni caso di Covid-19 sono stati appaiati casualmente cinque controlli con pari età, sesso e Comune di residenza – spiega Giovanni Corrao, Dipartimento di Statistica e Metodi quantitativi della Bicocca – Le informazioni sull'uso di farmaci e sui profili clinici dei pazienti sono state ottenute dalla banca dati regionale di assistenza sanitaria, mentre per tutto il campione è stato utilizzato un indice di prognosi, con uno score da 0 a 4, dove il valore più alto indica uno stato clinico peggiore. L'analisi ha evidenziato che i pazienti contagiati dal virus hanno un punteggio più alto nello score, fanno un uso più frequente di antipertensivi e sono più affetti da malattie cardiovascolari. Questo suggerisce che le manifestazioni cliniche del contagio si manifestano prevalentemente in persone clinicamente fragili", tra cui "pazienti affetti da malattie cardiovascolari e metaboliche. Tuttavia, farmaci come Ace-inibitori e sartani non sembrano avere alcun ruolo diretto nel favorire un maggior rischio di sviluppo o aggravamento dell'infezione".
Il lavoro – riportano ancora Int e Bicocca – ha incluso delle sotto-analisi in modo da prendere in considerazione eventuali differenze per sesso o per età (over 60 vs under 60), ma in entrambi casi "i risultati sono stati confermati, senza quindi evidenziare differenze significative tra i diversi gruppi". Inoltre è stata indagata la tesi che il rischio per i pazienti in terapia con antipertensivi non fosse solo un aumento della probabilità di essere contagiati dal virus, ma anche di sviluppare la sintomatologia in forma più severa a causa dell'esposizione ai bloccanti del sistema renina-angiotensina. "L'analisi di oltre 600 casi, comprendenti i pazienti ricoverati in terapia intensiva e i deceduti, ha smentito anche quest'ultima ipotesi".