Roma – La pressione alta è una patologia che colpisce il 40 % degli adulti. Secondo i dati della Società Italiana dell’Ipertensione Arteriosa (SIIA) in Italia ogni anno la pressione alta provoca circa 280 mila morti.Cercando anche di fare chiarezza sulle strategie per combatterlo: non è sempre opportuno, per esempio, accanirsi ad abbassare tanto la pressione con i farmaci. Lo ha sottolineato uno studio pubblicato su The Lancet, nato dalla revisione di due diverse ricerche che hanno complessivamente seguito quasi 31mila pazienti di 40 Paesi per poco meno di cinque anni: tutti soggetti ad altissimo rischio cardiovascolare perché spesso già vittime di infarti o ictus, in alcuni casi neppure ipertesi.
Sottoposti a una terapia per abbassare la pressione con l’intento di tenerla al minimo possibile, non tutti hanno tratto un gran giovamento dal trattamento “intensivo”: la terapia riduceva la probabilità di andare incontro a un evento cardiovascolare, ma il pericolo risaliva quando si scendeva al di sotto di 120 millimetri di mercurio per la massima e 70 per la minima. Ma a quale “numero” bisogna dunque mirare per star tranquilli? Parati ha cercato di dare una risposta a questo e altri interrogativi-chiave in tema di pressione alta con una serie di dieci meta-analisi pubblicate sul Journal of Hypertension, condotte rianalizzando i dati di innumerevoli studi; valutando pazienti ipertesi ma senza infarto, scompenso cardiaco o altre gravi patologie, si è visto per esempio che la terapia offre vantaggi cardiovascolari quando si scenda sotto i 150, i 140 ma anche i 130 di massima.
«I benefici però sono progressivamente minori quanto più è basso il livello di pressione che si raggiunge: nell’iperteso non complicato scendere sotto i 130 non è quindi pericoloso, ma il numero di eventi cardiovascolari che si riescono a evitare diminuisce – precisa l’esperto -. Chi ha la pressione più alta ha una probabilità parecchio elevata di infarti e ictus, perciò abbassarla “taglia” un numero più consistente di casi rispetto a quanto accade in chi parte da un livello iniziale di ipertensione, e quindi di rischio di eventi, un po’ più contenuto: in percentuale la diminuzione del pericolo è analoga in entrambi i gruppi, ma intervenendo su chi è più iperteso si “risparmia” un maggior numero di casi di infarto, ictus, morte». Sulla base di tutto ciò molti hanno pensato, in passato, che fosse più opportuno focalizzarsi sul trattamento dei pazienti ad alto rischio, garantendo alle terapie un rapporto costo/beneficio ottimale; le meta-analisi di Parati però hanno consentito di scoprire altro, cambiando non poco il panorama.
«Se è vero che tanto maggiore è il rischio di partenza, tanto più si riduce il numero assoluto di eventi che un paziente può sviluppare, è altrettanto certo che è più alto il rischio cardiovascolare che resta, il cosiddetto rischio residuo che non potremo più togliere perché deriva dai danni irreversibili provocati dall’ipertensione durante tutto il tempo nel quale non è stata tenuta sotto controllo: se le arterie sono indurite dai depositi di calcio non possiamo tornare indietro e “ripulirle” – spiega Parati -. Ecco perché nella terapia dell’ipertensione il motto oggi non dovrebbe essere “più bassa è, meglio è”, come peraltro dimostra anche l’ultimo dato sui pazienti ad altissimo rischio di Lancet, quanto piuttosto “prima è, meglio è”: il vero successo nella prevenzione si ha solo se interveniamo quando il danno d’organo non c’è o è ancora reversibile.
«Concentrarsi ad abbassare la pressione con terapie aggressive – conclude – solo quando in partenza è già molto alta e si è esposti a un alto rischio di eventi cardiovascolari significa solo tamponare le falle: certo avremo un beneficio, ma non torneremo più alla normalità e avremo di fatto fallito nel proteggere il paziente, perché il rischio residuo di complicanze resterà alto e provocherà infarti, ictus, decessi. Bisogna iniziare a curare l’ipertensione quando ancora non ha fatto troppi guai».