Ansia, insonnia e nebbia cognitiva tra i postumi del long Covid. “Il problema del post Covid esiste e lo rileviamo anche in Italia. Abbiamo molti postumi a distanza di tempo dall’infezione e dal ricovero in ospedale, ma non nelle percentuali osservate dallo studio, condotto in Cina, almeno per quanto riguarda in particolare gli strascichi respiratori. Rileviamo invece in maniera abbastanza importante le manifestazioni neuropsichiatriche del Long Covid. Insonnia, ansia e anche manifestazioni depressive: quelle sono ancora abbastanza persistenti”. A tracciare il quadro all’Adnkronos Salute è Patrizia Rovere Querini, immunologa, responsabile dell’hot spot Covid-19 dell’Irccs Ospedale San Raffaele di Milano che guarda ai risultati di uno studio cinese pubblicato su ‘The Lancet Respiratory Medicine’, l’indagine con il follow-up più lungo condotta finora, che ha mostrato anche a 2 anni di distanza la permanenza di almeno un sintomo nel 55% degli ex ricoverati per Covid-19.
“Le due casistiche, italiana e cinese, non si possono confrontare facilmente perché le popolazioni sono diverse: noi abbiamo pazienti più anziani e più in sovrappeso, loro hanno più giovani e in un rapporto maschi-femmine con più donne. Ma per quanto riguarda il quadro polmonare, però, fra i nostri pazienti già a 6 mesi il 70% stava bene, aveva avuto una buona ripresa. Avevamo poi un 20% con una dispnea ancora lieve e delle alterazioni, e un altro 10% con manifestazioni più importanti. La nostra analisi è stata stringente perché abbiamo invitato tutti a controllo e non son pochi i pazienti che abbiamo visto, circa 500 che erano stati ricoverati”.
Le manifestazioni del Long Covid “più sul fronte neurocognitivo da noi sono prevalenti sul lungo termine – spiega Rovere Querini – Sindromi come la nebbia cognitiva soprattutto, per fare un esempio. In questo caso queste manifestazioni persistono in un 30% della popolazione, a un anno. La nebbia cognitiva è finita spesso sotto i riflettori per i racconti di chi l’ha vissuta.
E questa espressione del Long Covid, la parte neurocognitiva, avverte l’esperta, “è indipendente dalla gravità. Da quando il nostro ambulatorio è stato aperto” anche a pazienti esterni che non erano stati ricoverati nella struttura, “sono arrivati con questa sindrome anche molti pazienti che hanno avuto un Covid lieve, curati a casa. Molti sono giovani, dai 25-30 anni in su. Nella nostra casistica queste manifestazioni sono un po’ più prevalenti nelle donne, che alla fine hanno avute un Covid meno grave rispetto agli uomini. Ecco, è questo aspetto del post Covid che a me colpisce e mi preoccupa di più: che impedisce al paziente, anche giovane, di ritornare alla vita personale e lavorativa precedente”.
“Ho avuto pazienti – continua Rovere Querini – che avevano anche lavori molto impegnativi e che adesso faticano molto a riprendere la loro posizione nel mondo. Persone che devono cambiare mansione per una con meno responsabilità o che continuano a fare il loro lavoro con fatica”. Come una donna dirigente che faceva mille riunioni al giorno, molto affermata e sempre dinamica: “Ha dovuto prendere una segretaria perché dopo il Covid all’uscita dai meeting non riusciva più neanche a ricordare cosa si era deciso. E’ andata avanti così per un semestre. E’ questa la nebbia cognitiva, è difficile da capire quanto possa essere invalidante se non la si vive”. Significa parlare al telefono e quando si è chiusa la conversazione non ricordare cosa ci si è detti. Significa “correggere le bozze dei manoscritti per mestiere e all’improvviso non riuscire più a valutarli, perché le parole non risultano essere più evocative come prima”. Tutto rallenta, tutto è più difficile.
E chiunque potrebbe potenzialmente essere esposto a questo tipo di problematica, conferma la specialista. “E non ho la sensazione che i pazienti vaccinati che hanno delle forme più lievi siano del tutto esenti da queste sequele”, osserva. Questa mancanza di lucidità può durare settimane, ma anche mesi. Ed è “curabile, con delle eccezioni che richiedono di essere seguite più a lungo. Non tutte le forme sono lievi, in alcuni casi si deve fare una terapia cognitiva e altri trattamenti. Ci sono degli esercizi che servono a riabilitare il paziente, che secondo i nostri psichiatri sono anche molto efficaci. Ma è importante parlarne, serve consapevolezza a livello di società e dare il tempo alle persone di guarire”.
Tutti, anche nel mondo del lavoro, devono sapere che il problema esiste e che ci può volere del tempo perché passi. “Bisogna che i pazienti possano aver tempo. E che sia chiaro che non dipende da quanto grave sia il Covid che si è avuto. Secondo me noi dobbiamo mettere in campo le risorse sanitarie perché queste persone possano avere accesso a tutti i trattamenti di cui hanno bisogno. Non credo che ci siano ancora tanti ambulatori di Long Covid dove c’è la possibilità di avere lo psichiatra, lo psicoterapeuta, e le figure necessarie, gestiti con il sistema sanitario nazionale. Andrebbe forse potenziato questo aspetto, perché i pazienti sono veramente contenti quando vengono seguiti in questo percorso di guarigione, anche da psichiatri che possono affiancarli e tranquillizzarli. Il sistema ha fatto le esenzioni, ha messo le prestazioni, ma forse non ha vegliato sulla creazione delle strutture necessarie. Sembra ci manchino un po’, che ci sia una richiesta significativa”.