“Comu u mulinu sciaurava ri farina, e a chiesa r’inciensu e cira fina. Sapia ri gessu a scola mia…” Era il primo settembre del 1960…, il mese del ritorno alla quotidianità scolastica dopo la pausa estiva. Per i bambini più piccoli era il periodo in cui avveniva il primo vero distacco dai genitori, lasciando la casa per frequentare la scuola dell’infanzia. Un tempo gestito dalle suore, l’asilo, come veniva popolarmente chiamato, è un ricordo che non svanisce sia per chi l’ha vissuto piacevolmente che per chi l’ha frequentato con meno serenità.
L’attuale scuola dell’infanzia trova le sue origini negli enti assistenzialistici promossi dagli Ordini religiosi, dai Comuni o dai privati. Nel regio decreto n. 1054 del 6 maggio 1923, art. 57, viene menzionata l’esistenza dei giardini d’infanzia o case dei bambini, che devono essere annesse agli istituti magistrali anche se la gestione non è del tutto statale. Bisogna attendere fino al 1968, quando con la legge 444 viene istituita la “scuola materna” con un’organizzazione statale e con la pubblicazione degli Orientamenti per scuola materna (1969) che la uniformano a livello nazionale.
Il mio primo ricordo…
L’odore delle matite era forte in quell’aula illuminata da finestre che richiamavano lo stile arabo. La misura dei banchi e delle sedie era proporzionata alle dimensioni dei piccoli alunni che l’affollavano. Non ricordo se portavamo un grembiulino oppure no. Di sicuro le insegnanti erano un po’ particolari; indossavano uno “strano” abito lungo e in testa una specie di fazzoletto. Erano suore. In mezzo a quei bambini ce n’era uno magro, dagli occhi un po’ socchiusi, timido ma con una gran voglia di scoprire la vita. Ero io, tre anni o poco più. Non so perché i miei genitori avessero scelto proprio quella scuola gestita da religiose, vicina all’ospedale civile. Fatto sta che, nonostante la riluttanza a staccarmi da loro, avevo accettato di buon grado quell’avventura fuori dalle confortevoli mura della casetta in affitto dove abitavamo in Via Ioppolo.
Ogni cosa che ricordasse un volante era l’oggetto dei miei giochi, bacinelle comprese. Viaggiavo con la fantasia per le strade della città riproducendo i rumori delle varie auto e, in particolare, della Fiat 750; conoscevo tutte le sfumature del rombo di quel piccolo motore che permetteva a quell’utilitaria di muoversi. Ricordo la mia felicità quando, non so chi, mi donò un volante di plastica bianca completo di leva del cambio. Era quello che desideravo per rendere più realistiche le mie avventure automobilistiche. Le vetturette a pedali della scuola materna mi sembrarono quindi straordinarie ed entusiasmanti, tanto da giustificare il primo atto di ribellione pubblica della mia vita. Un giorno, all’invito delle suore di lasciare i nostri giochi e sederci, io, unico fra tutti i bambini, risposi “picche” e continuai a giocare con quelle adorabili auto nonostante le loro proteste e richiami.
«Suor Geltrude è stata la mia suora dell’asilo, di lei ricordo la dolcezza con cui mi consolava quando piangevo, mi imboccava, dato che ero inappetente, mi insegnava a tenere la penna in mano, a fare i primi disegni, le prime aste e greche, insomma mi ha fatto piacere l’asilo. Ricordo che ci faceva riposare sui tavolini con la testa appoggiata tra le mani».
Immancabile in ogni scuola era la suora che si dedicava alla mensa: era una donnona e arrivava in refettorio con il grembiule bianco, il pentolone della minestra in una mano e nell’altra il mestolo. Versava la minestra nelle scodelle di alluminio, poste nei buchi dei tavoli. Se penso a quella minestra sento ancora l’odore! Per tanti anni ho ritenuto suor Geltrude (la cuoca) una suora severa e austera dato che l’associavo alla minestra da me non tanto gradita; ho scoperto solo più tardi che era una suora normalissima, simpatica e a volte burlona.
Tra le religiose c’erano anche quelle che avevano il ruolo di animatrici. A Ragusa Ibla alla fine degli anni Cinquanta c’era suor Ines; era la suora del divertimento che giocava con noi in cortile ai quattro cantoni, a pallavolo, a pallamano, a nascondino, a mosca cieca, a fazzoletto, a palla prigioniera ecc… Portava gli occhiali e mi chiedevo come facesse a non romperli con i suoi modi esuberanti.
Poi c’erano le suore tuttofare, come suor Benedetta che era piena di idee ed energie e, infatti, organizzava anche la colonia estiva, come una sorta di C.R.E. (centro ricreativo estivo), per i ragazzi delle elementari. Delle suore superiori ho un vago ricordo poiché non le chiamavamo mai per nome. “La superiora” era in genere anche la più anziana che incuteva un certo timore a noi bambini perché il più delle volte veniva chiamata per castigare.
La mia aula e quell’odore particolare…
L’aula, dal meraviglioso odore di matite e fogli che rapidamente si riempivano di disegni, e la sala dei giochi non sono gli unici ambienti che ricordo di quella scuola; c’era anche il refettorio dove noi bambini consumavamo i pasti. Dovrei usare la seconda persona plurale: “consumavano”. Già, perché io, inappetente per natura mangiavo pochissimo. Anche a casa, mia madre doveva lottare per farmi trangugiare una quantità di cibo sufficiente a sostenermi. Non so perché fossi così; la teoria portata avanti da alcuni (mio padre in particolare) attribuiva le colpe al dottore di famiglia che mi seguiva fin dalla nascita, il quale consigliò mia madre a non allattarmi più. Mai l’avesse fatto perché da quel momento, raccontano le cronache familiari, iniziarono i guai. Insomma, del cibo non volli più saperne. Pranzi e cene si trasformarono in autentiche salite al “Golgota”, sia per me che per i miei genitori.
Nel refettorio della scuola materna la musica non cambiava: mangiavo pochissimo e, per giunta, con estrema lentezza. Ero una specie di alieno, specie se confrontato con la voracità dei miei compagni, capaci di ripulire un piatto di pastasciutta in tempi da record. Per me, invece, un piatto di pastasciutta restava una montagna troppo alta da scalare, enorme, inaccessibile. Se ne accorsero le suore che, sante donne, cercarono di convincermi a prendere un po’ di cibo, almeno in quantità ritenuta sufficiente per un bambino della mia età. E così mi portarono a visitare le cucine, non tanto per farmi sentire il profumo dei loro manicaretti ma per convincermi, con metodi, diciamo così, poco ortodossi, a mangiare. Per farla breve, tentarono di imboccarmi. Non la presi bene, per niente. Fu un trauma, un incubo.
La mia avventura in quella scuola con le finestre in stile arabo, con tante automobiline a pedali, con quell’aula intrisa dell’odore delle matite, con la simpatica suor Ines, finì presto e tornai a giocare con i miei modellini allineati ordinatamente su una pettiniera nella stanza al termine del minuscolo corridoio della casa di via Ioppolo. Ero rimasto solo a giocare, ogni tanto giocavo con mio padre o con Giancarlo, l’amico del cuore che abitava accanto. I miei problemi “alimentari”? Rimasero tali a lungo per la disperazione di mia madre. Neanche le suore erano riuscite nell’impresa di farmi piacere il cibo.