Ragusa – “Da piccolo credevo che le donne della mia famiglia native nella mia amata Ibla (solo loro conoscevo ancora), fossero un po’ tutte delle maghe. Non c’erano segreti per loro. Una risposta a tutto e per tutto un rimedio. Quando poi si mettevano ad armeggiare con pentole e pentoloni era il massimo per noi bambini. Quando si doveva accendere “il fuoco grande” quello per la salsa, per il mosto o per fare il sapone, noi dovevamo stare alla larga per evitare pericolose scottature, ma soprattutto per lasciar lavorare liberamente chi doveva farlo. Forse, proprio per questo, molte volte, quei lavori venivano fatti quando noi eravamo a scuola o altrove, per non intralciare. Capitava quindi, che trovavamo delle cose già belle e fatte che aumentavano in noi l’aria magica aleggiante sulle nostre mamme e nonne che sembravano avere dieci braccia invece che due. Un rituale che si faceva un paio di volte all’anno o almeno una, era quello di preparare il sapone”.
Il passato che vive solo nelle nostre menti…
“C’è un passato recente ed un passato remoto, con tracce ancora vive nella memoria mia e dei nostri vecchi, nelle testimonianze scritte, nelle vecchie foto, e negli oggetti che ancora oggi sono di uso comune.
La vita nei centri rurali della Sicilia era dura, dettata dalle esigenze della terra e, tuttavia, la gente sopportava e viveva con amore e tenacia, accettandone tutti gli aspetti e le sfumature”.
È la vita negli anni ’40 in Sicilia. Anni di bombardamenti e povertà quando i bambini nascevano in casa. Le famiglie erano unite e patriarcali». Nelle case abitavano la mamma, la nonna, la bisnonna e a volte anche la trisavola. L’ostetrica del paese, che sapeva tutto di neonati e lei se ne intendeva davvero, veniva definita infatti «levatrice». Il primo bagnetto veniva fatto «’nta bagnalora», per dirla alla ragusana, come apostrofava Carmela Bellomio che di Ragusa Ibla conosceva ogni storia. Il neonato, al mattino, veniva immerso” na tinozza “ che poteva essere di legno o di zinco.
D’inverno, la «bagnalora» veniva sistemata nella stanza più calda, dove c’era sempre qualcosa che bolliva… la cucina. Avrete sicuramente sentito dire da qualche anziano parente «io sono nato n’ta pila ri zinco». Proprio perché quello era il primo posto dove veniva trasferito il nascituro appena avrebbe aperto gli occhi alla vita.
Il sapone era fatto in casa con la «soda caustica», un minerale della famiglia dello «zolfo» detergente. Dei tinozzi di un tempo se ne trovano ancora oggi in qualche casa «vintage» pieni di terra e con qualche fiore dentro per adornare le piante in un terrazzo.
Questa esposizione si propone di far luce sul sapere antico, ormai persi del tutto nel vortice della modernità. È la continua ricerca delle nostre tradizioni, è il tentativo di far parlare chi non c’è più, chi non pensava di entrare nei libri di storia, è il riproporre piccole e grandi ritualità. È, principalmente, il vissuto della gente. Cercherò, dunque, di spiegare i procedimenti, le difficoltà, i riti e i rimedi popolari, approfondendo alcune tecniche di pulizia usate prima della introduzione dei detersivi, dei saponi e dei detergenti sintetizzati chimicamente.
‘A Lavata…
Fino alla metà del secolo, le donne per lavare i panni dovevano recarsi alla Sciumara (fiumara). La Sciumara era un’importante risorsa per la gente comune, specialmente per la donna siciliana in veste di lavandaia.
La donna faceva prima il prelavaggio a mano col sapuni ri casa e, successivamente, faceva il bucato. Era quella, una attività in cui c’era bisogno di molta concentrazione. Si utilizzava una cesta di vimini dalla forma arrotondata, situata sopra a dei mattoni o a delle pietre pulite, dove la biancheria, già insaponata e leggermente sfregata e torciuta con le mani, veniva sistemata seguendo la forma concentrica della cofina. La parte finale, più larga, della superficie della cesta e i panni in essa contenuti venivano poi ricoperti da un telo di tessuto forte, detto carnavazza, ricavato da un vecchio lenzuolo o tessuto a mano in modo doppio, fatto di canapa o di cotone pesante; sopra a carnavazza veniva posto uno strato di cenere di 10 cm circa rigorosamente cirnuta, cioè passata al setaccio, e a questo punto, sul tutto, veniva versata l’acqua bollente. L’ultimo panno serviva da filtro a quest’acqua che impregnava quelli sottostanti. Era qualcosa di magico e strano quel misto che faceva diventare bianca e profumata la biancheria tessuta al telaio.
Il liquido, che scolava dal fondo della cesta, era chiamato in dialetto liscìja, cioè la lisciva, e possedeva capacità detergenti elevate. Per questo era prezioso. Con cura veniva poi raccolto e messo da parte per lavare i capi in lana e i panni colorati e delicati, ma anche per fare altri lavaggi come stoviglie, pavimenti, oggetti vari. La massaia con il primo liquido che usciva, essendo più sporco, lavava gli stracci.
Col successivo, più chiaro, lavava i panni colorati e le maglie di lana, che poi sciacquava alla maniera della biancheria; puliva e disinfettava i letti, spesso invasi dai parassiti e, a dosaggi diluiti, puliva persino i capelli, per renderli lucenti e morbidi.
‘U SAPUNI RI CASA…
Nelle famiglie non si buttava via niente, tutto era importante. L’olio, ad esempio, era prezioso sempre, anche quello fritto o andato a male, o depositato sul fondo dei recipienti in creta in cui era conservato. E proprio in uno di questi orci si raccoglievano questi residui: servivano per il sapone. Anche le giarre, dove restavano i residui dell’olio (spogghie) erano una manna dal cielo per fare del buon sapone. Fare il sapone richiedeva una certa esperienza, perché non era facile lavorare e dosare bene la potassa (soda caustica), ingrediente essenziale per far solidificare il sapone e l’acqua occorrente, le dosi di solito erano un chilogrammo di soda e cinque litri di olio.
Fare il sapone era un rito a cui partecipava non solo la famiglia, ma anche comari e donne del vicinato. Solo tanti tentativi, anni di esperienza e segreti rubati qua e là, facevano riuscire un buon sapone a una brava massaia. Il segreto era mescolare sempre e controllare il fuoco per regolare la cottura.
Quasi sempre ognuna delle comari del vicinato diceva la sua: a volte c’era troppo potassu (troppa soda) e quindi necessitava altra acqua, o era lientu cioè acquoso, e c’era bisogno di altra soda; in questo caso l’aiuto e i consigli delle comari e delle vicine era sempre ben accetto per la buona riuscita al primo colpo del risultato sperato.
Prima di iniziare il procedimento della lavorazione del sapone, era abitudine diffusa “benedire” con formule di rito, allo stesso modo del pane, anche il composto che si andava a trasformare in sapone. Si tracciava il segno della croce e si buttava un pugno di sale marino dentro il fusto o la caurara, pronunciando la seguente frase: «Patri figghiu e spiritu santu ca puti crisciri n’attru tantu!». Appena il contenuto cominciava a bollire si iniziava a versare piano piano la potassa, precedentemente sciolta in acqua fredda rimescolando di continuo con il bastone.
Questa erogazione, sapientemente dosata, doveva avvenire ad intervalli regolari e stando bene attenti a quando il liquido cominciava a rapprendere, altrimenti la massa per eccesso di soda si sdillacciava, cioè non coagulava bene. Potevano essere aggiunte delle essenze, chiaramente naturali, come bergamotti, limoni o arance la mia cara nonna Marianna metteva qualche dose di olio di gelsomino…. Mescolando continuamente avveniva la magia: la miscela iniziava a schiarire, passando dal marroncino al bianco panna, (quando il procedimento andava bene).
Un colore non proprio chiaro non era comunque sinonimo di cattiva riuscita: il suo dovere di sbiancare e fare schiuma il sapone lo avrebbe fatto lo stesso, anche se più scuro. Si capiva che il sapone era pronto quando, mettendo il mestolo o il manico di scopa in legno al centro del composto, questi restava dritto e non scivolava di lato. Significava che la consistenza era quella giusta e assicurava una buona saponificazione.
Se non era ancora solido, si lasciava riposare per altro tempo prima di tagliarlo, ma se capitava che non quagliava voleva dire che qualcosa era andato storto e quindi andava rifatto).
Una volta tagliato a pezzi non restava altro che farlo asciugare fino a che diventava secco e leggero. Asciugando, di solito si formava una patina di scaglie di soda luccicante, ma sul prodotto stagionato non faceva più male toccarla, perché non più caustica. Sul finire degli anni ‘50, grazie anche all’avvento delle lavatrici, l’usanza di fare il sapone in casa, come quella del bucato a mano, gradualmente è scomparsa. Questa consuetudine era dettata dal bisogno e dalla necessità del risparmio, e oggi un altro retaggio della classe contadina sta per morire. Sopravvive forse solo in poche famiglie, aggrappate caparbiamente agli usi e ai costumi della nostra tradizione dei paesi montani degli Iblei…
Dunque, che ben venga un ritorno al “si stava meglio quando si stava peggio” che non è sinonimo di regresso, ma semplicemente recupero di buone e sane abitudini che ci riportano a quanto di positivo c’era nell’ uomo di una volta … lungo le vie di odori e profumi dimenticati.