Palermo – Pamela Villoresi è la protagonista, insieme al musicista maliano Baba Sissoko, di un nuovo allestimento dello spettacolo Memorie di una schiava, in prima nazionale nella Sala Strehler del Teatro Biondo di Palermo, che lo produce, mercoledì 12 marzo alle ore 21.00. Liberamente tratto dal romanzo Spedizione al baobab della scrittrice sudafricana Wilma Stockenström, lo spettacolo è curato nell’adattamento e diretto da Gigi Di Luca; le musiche di Baba Sissoko sono eseguite dal vivo, mentre le luci sono di Gabriele Circo. Repliche fino al 30 marzo.
“Poema vegetale”, come lo definisce la traduttrice Susanna Basso, il romanzo Spedizione al baobab della scrittrice sudafricana bianca Wilma Stockenström, che ha vinto numerosi premi tra cui il Grinzane Cavour, e da cui trae ispirazione lo spettacolo, è stato scritto nel 1981 in afrikaans. Ed è bello notare che questo racconto di una schiava trovi parola nella lingua stessa di chi quella sofferenza ha causato, nella lingua gutturale e straniera dell’offesa.
Nelle Memorie di una schiava la protagonista racconta il suo desiderio di opporre resistenza a una vita di violenze alle quali è stata “naturalmente” costretta. Lo spettacolo è il poetico monologo di una figura femminile della quale non si conosce il nome perché – dice – «pronuncio il mio nome e non significa nulla».
«La scelta di affidare il testo ad una attrice come Pamela Villoresi – spiega Gigi Di Luca –lontana dall’immaginario di donna africana, è stata dettata dalla volontà e dalla necessità di decontestualizzare la narrazione e spostare la storia di questa donna-schiava su un piano universale. Le ferite, le violenze, il dolore, l’umiliazione non hanno nazionalità, appartengono alla vita a alla crudeltà umana che le genera in ogni dove. È la musica però che ha il compito di condurci in Africa, con la voce violenta e a tratti dolce di un griot, cantastorie dai tanti volti, che incarna “l’uomo”, amore e dolore, offesa e cura allo stesso tempo».
L’albero, il mitico e simbolico baobab in cui la vecchia schiava alla fine della sua vita si rifugia, l’accoglie e la protegge: «Conosco l’interno del mio albero come un cieco casa sua, come si può conoscere qualcosa che è nostra soltanto e come invece non ho mai conosciuto le capanne e le stanze in cui mi veniva ordinato di dormire». Il baobab è il suo punto di riferimento, il confine spaziale e temporale tra un passato dominato da confusione e terrore e un presente in cui la creatura comincia a riprendere in mano i fili della sua esistenza. Dietro le spalle, in quel “prima diverso”, c’è la schiavitù, con le facce e i corpi dei padroni che hanno tormentato la sua vita.
Le riflessioni della protagonista ci aiutano a pensare e ci spingono a indagare sulle schiavitù di oggi, sulle nuove forme di costrizione che continuano a negare la libertà e la dignità umana.
Le parole poetiche di Wilma Stockenström, la sua storia della schiava sudafricana, si sovrappongono alle storie e ai volti delle ragazze nigeriane, senegalesi, ghanesi, albanesi di oggi.
La messa in scena si muove su diversi piani narrativi: parole, immagini e musiche, eseguite dal vivo da Baba Sissoko, griot maliano chiamato a raccontare nuove e più amare storie, a intonare un solo grande “canto corale di libertà”. La regia di Gigi Di Luca esalta il rapporto tra musica etnica e parola, linguaggi essenziali per un recupero dell’identità collettiva, attraverso i codici della tradizione popolare che si rifrangono nelle forme del contemporaneo.
note di regia
Una schiavitù senza confini geografici, che parte dall’Africa e incontra simbolicamente le storie e i volti delle tante ragazze vittime di altre schiavitù contemporanee. La scelta di affidare il testo ad una attrice come Pamela Villoresi, lontana dall’immaginario di donna africana, è stata dettata dalla volontà e dalla necessità di decontestualizzare la narrazione e spostare la storia di questa donna-schiava su un piano universale. Le ferite, le violenze, il dolore, l’umiliazione non hanno nazionalità, appartengono alla vita a alla crudeltà umana che le genera in ogni dove. È la musica però che ha il compito di condurci in Africa, con la voce violenta e a tratti dolce di un griot, cantastorie dai tanti volti, che incarna “l’uomo”, amore e dolore, offesa e cura allo stesso tempo.
Ho costruito una tessitura con delicatezza, una partitura di emozioni in alternanze continue tra pieni e vuoti, tra azioni e sottrazioni in equilibrio costante tra loro. Un linguaggio essenziale, unico, interiore, che intreccia la parola, il gesto, il suono per superare ogni forma di descrizione esotica e oleografica, per allontanare il rischio di uno stereotipo, di un pregiudizio verso la madre terra Africa.
La poesia in questo spettacolo si eleva dal dolore, la bellezza rinasce dalla brutalità, dalla sofferenza, complice il ventre protettivo del Baobab: “Sono un essere supremo in questa corteccia e ogni volta che lascio il ventre protettivo dell’albero torno a essere umana. Rinasco ogni volta dal grembo del baobab”. Il voler essere ad ogni costo più vicina alla natura umana che a quella animale è significativo della condizione della schiava e del percorso lacerante della sua vita: “Ho superato anche l’offesa di non poter essere umana”, confessa a se stessa, desiderando ancora di essere madre, madre di figli che le venivano rubati e venduti in lotti separati fin da piccoli.
Ho avvertito la necessità di ricercare l’essenza, la naturalezza nel dolore e nel piacere come unico mezzo espressivo per portare il dramma umano e sociale dentro ogni forma di riflessione, dandogli assoluta verità, per indagare sulla sottomissione psicologica e fisica, sulla schiavitù che con nuove forme di costrizione continua a negare la libertà e la dignità umana.