Palermo – Vincenzo Pirrotta porta in scena al Teatro Biondo di Palermo una nuova edizione del suo adattamento teatrale di Terra matta, l’eccezionale autobiografia di Vincenzo Rabito, contadino siciliano analfabeta che ha lasciato un’appassionata testimonianza della storia del Novecento italiano attraverso emozionanti e suggestive pagine dattiloscritte, pubblicate nell’omonimo libro edito da Einaudi. Lo spettacolo, coprodotto dal Biondo e dal Teatro Stabile di Catania, debutta in prima nazionale venerdì 28 marzo alle ore 21.00; repliche fino al 6 aprile, dall’8 al 13 al Teatro Verga di Catania.
In scena, al fianco di Pirrotta, Lucia Portale, Alessandro Romano, Marcello Montalto e i musicisti Luca Mauceri (percussioni, elettronica, chitarra classica), Mario Spolidoro (organetto, chalumeau, chitarra), Osvaldo Costabile (violino, violoncello). Le musiche originali sono di Luca Mauceri i costumi di Francesca Tunno, le luci di Antonio Sposito.
Classe 1899, Vincenzo Rabito visse gran parte della sua vita in condizioni drammatiche: fin dalla prima infanzia si dedicò al faticoso lavoro nei campi per
mantenere sei fratelli e la madre vedova, passando poi per le trincee durante la Prima Guerra Mondiale, sopravvivendo alle bombe della Seconda, alla fame atavica del Sud contadino, fino all’improvviso benessere della«bella ebica» del boom economico.
A rendere unica questa minuziosa autobiografia, dettata dalla necessità di far fronte a un’estrema battaglia quotidiana portata avanti giorni dopo giorno dal 1967 al 1970, è la lingua: un misto di parole inesistenti, neologismi ricchi di figure retoriche utili a rendere emozioni e sentimenti di una «molto desprezzata e maletrattata vita».
Pirrotta riprende in mano il dattiloscritto di Rabito, custodito dal 1999 all’Archivio Diaristico Nazionale di Pieve Santo Stefano, per dare voce, e nuova vita, a quella che è stata definita una straordinaria epopea dei diseredati. «Il lavoro più difficile – spiega Pirrotta – è stato quello dell’adattamento per la scena: bisognava dire tutto, ma il teatro non può avere gli stessi “tempi” di un romanzo e perciò ho provato a raccontare inventandomi delle scene che mi consentissero di condensare la storia e di sviluppare i passaggi delle varie epoche, si troveranno dunque personaggi che vanno dalla farsa al teatro dadaista, ma il grottesco è stata la mia strada maestra perché lavorando sul grottesco, a mio avviso, potevo rendere vivi i personaggi di Rabito.
E ho scritto anche delle canzoni che mi sono servite per sintetizzare i fatti storici, il suo peregrinare per l’Italia dopo la Prima guerra, il periodo trascorso nelle campagne d’Africa, suonate da un’orchestrina che è sempre in scena».