Un film necessario, uno di quelli che servono al loro autore per dire qualcosa al mondo, al di la’ del loro valore intrinseco. E’ il caso di "J’accuse" con Jean Dujardin ed Emmanuelle Seigner, il film che Roman Polanski ha dedicato al celebre caso Dreyfus, che divise la Francia di fine ‘800 e segno’ un punto di non ritorno su antisemitismo, uso persecutorio della giustizia e bisogno di capri espiatori.
Il semplice fatto che il film arrivi in Concorso a Venezia 76 con lo strascico di polemiche sollevate dalle attiviste del movimento MeToo e’ emblematico del clima intransigente e che si respira in certi ambienti cinematografici. Accuse che lo stesso Polanski aveva definito frutto di isteria collettiva e vera e propria persecuzione, ancor piu’ dopo la sua espulsione dall’Academy degli Oscar Hollywoodiani. Prendendo a prestito il celebre titolo dell’articolo di Zola che sollevo’ in Francia il velo sulle falsita’ delle accuse e le manipolazioni delle prove contro il capitano Dreyfus, il film ricostruisce con precisione di dati e forza drammatica gli eventi.
Polanski preferisce non sceglie la prospettiva narrativa della vittima, ma quella del Colonnello Georges Picquart, il quale, ritrovatosi a capo dell’intelligence francese, si accorge delle gravi irregolarita’ nelle prove contro Dreyfus e si adopera per riaprire il processo e ristabilire la verita’, anche a scapito della propria carriera. Polanski cerca con lucidita’ l’indignazione, evita ogni mezzo tono e stigmatizza il clima di palese antisemitismo che segnava la societa’ francese di fine ‘800 e che oriento’ fortemente l’opinione pubblica contro l’ufficiale ebreo. L’integrita’ del colonnello Picquart diventa per Polanski l’ago della bilancia che consente di soppesare il rapporto tra la verita’ e l’onesta’, spingendo il film in una dimensione drammaturgica che tiene sempre l’equilibrio.