Milano, 17 lug. – Dalla pandemia di Covid-19 “ho imparato che ai morti, ai tanti morti, e alle sofferenze non ci si abitua proprio mai”. L'infettivologo Massimo Galli ripercorre l'esperienza vissuta nei mesi più critici dell'emergenza coronavirus in una video-testimonianza resa nell'ambito di 'AWay Together', progetto di Janssen che coinvolge tre eccellenze del settore, chiamate a immaginare insieme una strada comune per affrontare le sfide della sanità che verrà. Il primo racconto è proprio quello di Galli, ordinario presso il Dipartimento di Scienze biomediche e cliniche 'L. Sacco' dell'università Statale di Milano, al quale seguiranno le storie di Massimo Andreoni e di Carlo Federico Perno.
“All'ospedale Sacco – spiega lo specialista – eravamo in una condizione abbastanza privilegiata. Essendo il centro di riferimento per le malattie che necessitano di alto biocontenimento per l'Italia settentrionale, avevamo protocolli, esercitazioni, personale addestrato”. Nonostante questo solido know-how, “all'inizio non abbiamo quasi nemmeno avuto il tempo di pensare”, colti di sopresa da un nemico invisibile che ha costretto persino i professionisti più esperti a fare i conti con la realtà: “Non si poteva non avere a che fare con una gestione anche emotiva del problema – prosegue Galli – derivata dal fatto che avevamo moltissime persone che, con nostra profonda frustrazione, non riuscivamo a tenere in vita a dispetto di tutti i tentativi anche terapeutici messi in atto. Quello delle terapie”, riflette l'infettivologo, è stato “un altro capitolo interessante e per certi versi drammatico” delle lunghe settimane passate 'in trincea'.
“Dal punto di vista personale – aggiunge il medico – ho imparato che è assolutamente necessario rimanere il più possibile 'open mind', studiare, cercare di capire. Magari anche di costruire delle ipotesi, non affezionandosene senza dati”, ma mettendosi piuttosto “nelle situazioni in cui puoi sviluppare dati”.
Nella video-intervista Galli inizia a raccontarsi a partire dalla formazione universitaria, per poi soffermarsi sulle malattie che hanno segnato maggiormente la sua carriera di infettivologo: “La mia vita professionale – dice – è stata contrappuntata soprattutto da due infezioni. Una in realtà è un gruppo di infezioni ed è l'epatite. Tra le epatiti, l'epatite C, quando ho incominciato a occuparmene, era ancora un'epatite di cui non si conosceva in realtà l'origine. Cronologicamente, prima della scoperta del virus dell'epatite C, è venuta la scoperta del virus dell'Aids”. E l'Hiv è stato il secondo killer che ha più caratterizzato la vita professionale dell'esperto.
Il docente guarda quindi al futuro, affrontando il tema dell'accelerazione digitale applicata alla medicina e alla gestione dei pazienti cronici: “E' chiaro – afferma – che queste persone devono da una parte mantenere il rapporto con il proprio specialista di riferimento, ma è anche chiaro che per tutte le persone con cronicità che si riferiscano agli ospedali si deve superare il concetto di appuntamento preso e di attesa in un contesto ospedaliero nei tempi previsti come orario di lavoro del personale infermieristico e medico. Ci vuole qualcosa di più e bisogna anche ridurre le necessità di spostamenti non necessari. Va sempre meglio organizzato il recapito diretto della terapia a domicilio, ove questo fosse possibile. Tutto quello che la tecnologia può mettere a disposizione – conclude l'infettivologo – deve poter essere anche parte del processo complessivo, non in termini sostitutivi ma integrativi”.