Milano, 22 apr. – "Da questo letto senza cuore scelgo di scrivervi, cari miei figli e nipoti. L'ho consegnata di nascosto a suor Chiara nella speranza che dopo la mia morte possiate leggerla". E' la lettera scritta da un anziano ospite di una Rsa, morto di coronavirus, solo come tanti pazienti vittime di questa pandemia. Il testo integrale è riportato sul giornale 'InTerris' ed è un addio da quella che l'uomo definisce "una prigione dorata", prendendo in prestito le parole – scrive – di "don Oreste Benzi". "Mi sembrava esagerato e invece mi sono proprio ricreduto – dice l'anziano – Sembra infatti che non manchi niente, ma non è così.
Manca la cosa più importante, la vostra carezza, il sentirmi chiedere tante volte al giorno 'come stai nonno?'". "Mi è mancato l'odore della mia casa, il vostro profumo, i sorrisi, raccontarvi le mie storie e persino le tante discussioni. Questo è vivere, è stare in famiglia, con le persone che si amano e sentirsi voluti bene e voi me ne avete voluto così tanto non facendomi sentire solo dopo la morte di quella donna con la quale ho vissuto per 60 anni insieme, sempre insieme". Scrive con sincerità l'uomo che "in 85 anni" ne ha "viste così tante e come dimenticare la miseria dell'infanzia", ricorda.
Scrive con la penna "ricevuta per grazia da una giovane donna", "l'unica persona che in questo ospizio mi ha regalato qualche sorriso, ma da quando porta anche lei la mascherina riesco solo a intravedere un po' di luce dai suoi occhi. Non volevo dirvelo per non recarvi dispiacere su dispiacere sapendo quanto avrete sofferto nel lasciarmi". Le sue parole sono anche una riflessione cruda sulle Rsa e su come può essere trascorrere gli ultimi giorni in una struttura che non è casa, famiglia. Un messaggio "ai miei nipoti… e magari a tutti quelli del mondo". L'uomo precisa: "Sono stato io a convincere i miei figli, i vostri genitori, per non dare fastidio a nessuno". Certo, prosegue, "non potevo mai immaginare di finire in un luogo del genere. Apparentemente tutto pulito e in ordine, ci sono anche alcune persone educate, ma poi di fatto noi siamo solo dei numeri, per me è stato come entrare già in una cella frigorifera".
L'uomo ripercorre la sua vita prima di morire, "il giorno della laurea e della prima arringa in tribunale. Quanti 'grazie' dovrei dire – osserva – un'infinità a mia moglie per avermi sopportato, a voi figli per avermi sempre perdonato, ai miei nipoti per il vostro amore incondizionato. Gli amici, pochi quelli veri, si possono veramente contare solo in una mano". E poi torna al presente, ai momenti che restano. "Nella mia vita non ho mai voluto essere di peso a nessuno, quando ho visto di non essere più autonomo non potevo lasciarvi questo brutto ricordo di me, di un uomo del tutto inerme, incapace di svolgere qualunque funzione".
Ma adesso, guardandosi indietro, l'anziano non ha dubbi: "Vorrei che sappiate tutti che per me non dovrebbero esistere le case di riposo, le Rsa, e quindi, ora che sto morendo lo posso dire: mi sono pentito. Se potessi tornare indietro supplicherei mia figlia di farmi restare con voi fino all'ultimo respiro, almeno il dolore delle vostre lacrime unite alle mie avrebbero avuto più senso di quelle di un povero vecchio, qui dentro anonimo, isolato e trattato come un oggetto arrugginito". "Questo coronavirus – riflette – ci porterà al patibolo, ma io già mi ci sentivo", "l'altro giorno l'infermiera mi ha preannunciato che se peggioro forse mi intuberanno o forse no. La mia dignità di uomo è stata già uccisa. Sai Michelina, la barba me la tagliavano solo quando sapevano che stavate arrivando e così il cambio".
"Non cerco la giustizia terrena – conclude – Fate sapere però ai miei nipoti che prima del coronavirus c'è un'altra cosa ancora più grave che uccide: l'assenza del più minimo rispetto per l'altro, l'incoscienza più totale. E noi, i vecchi, chiamati con un numeretto, quando non ci saremo più, continueremo da lassù a bussare a quelle coscienze che ci hanno offeso affinchè si risveglino, cambino rotta, prima che venga fatto a loro ciò che è stato fatto a noi".