Ragusa – Una guerra che dura da vent’anni. Una delle tante. Una casa, là, proprio sulla linea di confine tra le due nazioni nemiche. Una coppia di mezzaetà, tenera e legatissima ancora dopo trent’anni insieme. Nonostante appartengano, lei, Levana Julak (Federica Bisegna) e lui, Atom Roma (Vittorio Bonaccorso), alle due diverse nazioni belligeranti.
Il loro lavoro, per cui vengono pagati, ma vissuto come un preciso dovere morale, raccogliere cadaveri, identificarli e ‘rinominarli’, seppellirli in luoghi facili da individuare, in attesa che genitori parenti o altri li vengano a reclamare per portarseli a casa. 5096 le schede compilate scrupolosamente, una per ogni morto.
Poi alla guerra subentra, non diciamo peggiore, ma obbrobriosa tanto quanto, la tregua, l’armistizio, forse (?) la pace. Ed in casa di Levana ed Atom piomba una giovane saccente antipatica e prepotente ‘Guardia’ (Alessio Barone) che, irremovibile, pone le fettucce colorate a delimitare, dentro la stanza, il confine, invalicabile, tra le due nazioni ex nemiche, con tanto di impossibiltà per i due proprietari, di passare da una parte all’altra senza ‘regolare’ permesso, nemmeno per far andare Atom a ‘pisciare’, nel gabinetto da lui costruito, ma dall’altra parte della casa e quindi in territorio nemico; nemmeno, per Levana, di andare a riscaldare le minestra, anche se poi, in un momento di debolezza della Guardia, questi lo permetterà perchè, si sa, ad una minestra calda non si resiste, soprattutto se si è cresciuti e si è stati addestrati in una istituzione totale (collegio, caserma o simile) a forza di ordini indiscutibili e di cene e pranzi freddi.
E pian piano in Levana, e poi anche in Atom, comincia ad insinuarsi il dubbio che quella giovana Guardia possa essere Joseph il loro figlio andato o meglio mandato via dal padre. Tutto questo e molto altro ancora, con infinite sfumature, è nella piéce “Dall’altra parte” di Ariel Dorfman, che la Compagnia Godot ha riportato in scena nella sua Maison lo scorso fine settimana. Una replica prevista da tempo ma che, forse per quelle geometrie esistenziali cantate da Battiato, cade proprio quando una impensabile, assurda, inaspettata guerra scoppia in Europa, in Ucraina. A pochi giorni dal bombardamento del teatro di Mariupol che, laico tempio non più sacro dell’arte e della cultura, ospitava povera gente costretta a trovarsi un rifugio. E al teatro di Mariupol la Maison Godot ha voluto gemellarsi aderendo all’iniziativa lanciata dallo scrittore Stefano Massini, per cui sulla porta di ingresso della Maison GoDoT c’è un cartello con la lettera “M” e la scritta: “Questo teatro è il teatro di Mariupol”, perchè sarà come se tutti i teatri fossero il teatro di Mariupol, e come tali, in parte, fossero stati colpiti anche loro”. E come hanno ricordato in queste serate Federica Bisegna e Vittorio Bonaccorso, “Dorfman riesce a costruire con grande maestria una situazione al limite del paradosso.
La metafora dell’opera si riferisce a tutti i confini e le limitazioni costruite nel tempo dall’uomo e che oggi ritornano enormemente d’attualità”. (daniele distefano)